venerdì 2 dicembre 2011

"Fortunatamente l'arte ha una grande dote, quella di essere inesauribile. È un processo senza fine, nel quale non si smette mai di imparare."


Fernando Botero

sabato 5 novembre 2011

Dirty Corner - Anish Kapoor

Pochi giorni fa sono venuta a sapere che c'era un'esposizione di Anish Kapoor a Milano, dislocata tra la Rotonda di Via Besana e la Fabbrica del Vapore. Purtroppo la parte relativa alla Rotonda si è conclusa il 9 ottobre scorso, quindi mi sono dovuta limitare alla Fabbrica del Vapore, che invece è aperta al pubblico fino all'8 gennaio 2012 alla modica ci fra di 6€ (4€ con il ridotto).

Anish Kapoor è uno sculture ed architetto anglo-indiano che costituisce uno dei maggiori esempi di arte contemporanea a livello mondiale.  La caratteristica principale delle sue opere è che, a suo dire, prendono davvero vita solamente con l'esperienza da parte dello spettatore. 
È un discorso che a me ricorda molto il concetto della Ruota del Dharma: l'opera nasce con la scultura, per mano dell'artista, e si completa con l'esperienza.


Questo concetto è molto forte in Dirty Corner. Si tratta di un'installazione site-specific, e cioè che Anish Kapoor ha creato appositamente per questo polo espositivo: un enorme tunnel in acciaio, lungo circa 60 metri, alto circa 8, con un diametro di circa 3 e con un'imboccatura che somiglia molto ad una calla.
La prima "tappa" di questa esperienza particolare è l'obbligo di firmare una liberatoria: senza saperlo si sta già iniziando a sperimentare le sensazioni che dopo avranno letteralmente il sopravvento, ancora prima di pagare il biglietto d'ingresso! Con la firma di quel foglio, in cui si sollevano l'artista e gli organizzatori da qualsiasi responsabilità relativa alle eventuali "conseguenze" della visita, si sta accettando l'ignoto. Ammetto che, essendo una cosa così insolita, ha un po' agitato sia me sia le mie compagne d'avventura.
Dopo aver firmato e pagato il biglietto si entra in questa enorme sala della Fabbrica, chiamata "Cattedrale". Il contrasto tra la sala illuminata a giorno dalle immense vetrate e il buio che si vede al centro del tunnel è davvero forte: anche questo, ripensando alla situazione, contribuisce inconsciamente ad aumentare il senso di ansia. Altro elemento che prepara all'accettazione dell'ignoto è il fatto che la fine della sala non è visibile, c'è un muro che impedisce di vedere dove finisce il tunnel o com'è alla fine, se c'è un'altra apertura, niente. Una cosa cui invece inizialmente non è ben chiaro il significato è il cumulo di terra che, nel corso del tempo previsto per la mostra, ricopre gradualmente il tunnel, ma andiamo per gradi.


Una volta preso atto del fatto che si sta per passare da una situazione perfettamente sotto controllo, illuminata e nota, ad un'altra di cui nulla ci è dato sapere se non la lunghezza del percorso, ci si trova di fronte all'imboccatura. Oggi eravamo solo in tre, quindi abbiamo avuto tutto il tempo di guardarci intorno indisturbate, osservare il contesto, e prepararci ad entrare... ma quando è stato il momento di iniziare il percorso, tutte quante eravamo ugualmente abbastanza agitate. All'inizio, per via anche dell'apertura a forma di calla, il tunnel non è molto buio, quindi si procede a passi abbastanza sicuri. Dopo un po', però, si inizia a percepire un senso di smarrimento: il piano d'appoggio non è regolare, quindi i passi sono sempre più piccoli e sempre meno sicuri, le pareti sono molto larghe e oltretutto, trattandosi di un tunnel, sono concave e non è possibile usarle come riferimento. 
Dirty Corner punta senza dubbio alla deprivazione sensoriale, non aggiunge stimoli anzi ne toglie: toglie al corpo le sue sicurezze e gli impedisce di adottare le sue solite reazioni agli stimoli. Nel momento in cui mi accorgo di essere circa a metà del percorso, ricordo anche il cumulo di terra: è proprio sopra di noi in quel momento, e l'idea di trovarsi sotto un cumulo di terra, in un posto di cui non si vede l'uscita, non è esattamente rilassante. 
Poco alla volta si arriva all'uscita, non c'è nessuna rassicurante "luce infondo al tunnel", nessuno sbocco enorme, c'è solo una piccola porticina che invita all'uscita. E in ogni caso, anche vedendo quel piccolo spiraglio di luce, il sollievo non è poco.
Una volta terminato il percorso, non essendoci nessun altro, decidiamo di ripeterlo. Inutile dire che l'abbiamo fatto in meno della metà del tempo e con molta più spavalderia. Questa è la prova del fatto che il tema della materialità del vuoto, molto presente in Kapoor, è stato centrato in pieno: ho provato delle sensazioni incredibili e ho sperimentato l'enorme tangibilità dell'assenza. A conferma di quello che ho detto in apertura, nelle opere di questo artista c'è senza dubbio un contributo fondamentale dell'esperienza umana. Anche leggendo questo post è possibile vivere il percorso, ma non sarà mai come farlo personalmente; soltanto così l'opera avrà vita in noi. 

In conclusione quindi mi sento di dire che a mio parere si tratta di un'installazione riuscitissima, con un contesto curato nel dettaglio e che permette di inserirsi per gradi nella sperimentazione dell'opera. 


R.M.

mercoledì 2 novembre 2011

Un banchiere e tre bambini per risvegliarci dal torpore.

"Give a Wall St banker enough rope and he will hang himsel" (dai abbastanza corda ad un banchiere di Wall Street, e lui si impiccherà). Questa frase, che l'autore dice essere ispirata al modo di dire "se dai abbastanza corda ad uno stupido, egli si impiccherà da solo", campeggia, enorme, su un murales apparso qualche giorno fa nella città di Miami. La ciliegina sulla torta però è il fantoccio: Above, l'artista, l'ha appeso per il collo, con una corda, al cavo del telefono che corre sopra a quel muro. Si tratta di un fantoccio vestito come un tipico impiegato di Wall Street, con un completo nero e la classica valigetta da lavoro, da cui escono dei dollari. 


Above si rende conto che questa sua installazione è di forte impatto, ma si dice ancora più sconvolto nel vedere quanto potere abbiano in mano queste poche persone: è molto aggressiva, è sopra le righe, ma la situazione attuale è talmente grave che se una cosa del genere può aiutare a far riflettere, tanto meglio.

Questa notizia mi ha riportato immediatamente alla mente la performance di Cattelan che vide per un mese, dal 6 maggio al 6 giugno 2004, i fantocci di tre bambini appesi per il collo ad un albero secolare. In quel caso eravamo in Italia, Piazza XXIV maggio, Milano.


Le proteste ci furono, e furono anche tante, fortunatamente però l'installazione ebbe il benestare dell'allora sindaco Albertini. I tre bambini appesi sono una provocazione, vogliono raccontare la tensione che c'è nel mondo contemporaneo. Quello che ho provato io, guardando le foto di quest'opera tanto discussa, è stato disgusto. Inizialmente pensavo che fosse disgusto per l'idea stessa, poi mi sono informata, ho voluto sapere il perchè di questa pensata e ho voluto contestualizzarla.

Cattelan, dei suoi "bambini" dice:

“Non è un lavoro monumentale ma susciterà paura e probabilmente sarà giudicato eccessivo. È un intervento sul tema dell'infanzia, che è per me uno spazio di libertà e al contempo un posto di soprusi e violenze. Ma è anche il futuro e quindi è una riflessione su quello che ci sta accadendo intorno. È una specie di gogna che rappresenta il senso di violenza che sento dappertutto”.


Sia nel caso di Above sia in quello di Cattelan, quindi, è evidente l'intento di denuncia. I fantocci vengono usati per rendere manifesti soprusi e violenze che quotidianamente avvengono nella società in cui viviamo. Sono due esempi diversi sotto molti aspetti, ma quello fondante è lo stesso: il tentativo di far riflettere le persone. Trovo che questo sia un utilizzo molto nobile dell'arte, perchè secondo me deve essere uno strumento di comunicazione e, se è il caso, di denuncia. Nella modernità in cui viviamo, la maggior parte dell'attenzione viene riservata alle immagini (d'impatto e di veloce consumo) più che alle parole (che richiedono impegno e concentrazione), quindi se è con iniziative del genere che si riuscirà a stimolare la mente delle persone, allora è il caso di lavorarci su. Perchè questa società ha bisogno di uscire dal torpore delle immagini di routine e di essere risvegliata con qualcosa che, come una secchiata d'acqua fredda, colpisce e lascia il segno.


R.M.

martedì 1 novembre 2011

Introduzione all'arte indiana


Per cominciare questo nuovo ciclo riguardante l'arte indiana è bene fare una premessa: solo una parte dell’arte indiana si è conservata, un po’ come in tutte le civiltà. In questo caso particolare però le motivazioni sono molteplici, una su tutte è quella del clima caldissimo e umidissimo: si sono conservate le cose più resistenti ed i manufatti sono andati persi molto velocemente. Solo nel III secolo si ha una grande svolta con l’utilizzo della pietra, con cui vengono rinforzate molte costruzioni in legno già esistenti.

Quello della pietra però è un metodo parecchio laborioso, impegnativo e costoso, è finanziato da sovrani e ricchi mercanti. Attraverso questo tipo di costruzioni, infatti, da un lato cercano maggiori meriti religiosi e dall'altro sfoggiano la loro potenza (cercano di ingraziarsi gli dei): infatti la pietra viene adoperata principalmente per costruire luoghi dedicati al culto e alla meditazione. Un fatto interessante è che non sono stati trovati esempi di scultura a tutto tondo, ma solo rilievi. I testi parlano anche di arte laica, di cui però è stata trovato poco, anche perchè la prima parte dell’arte indiana non prevede l’uso delle immagini, nemmeno per gli dei. Inoltre non sappiamo quasi nulla nemmeno di come fossero le residenze di principi e sovrani, né di come fosse la pittura.

Nonostante tutto questo, però, l’arte indiana influenza moltissimo tutta l’Asia: in quanto essenzialmente religiosa intende evocare principi metafisici e si costruisce su dei simboli. È presente un’iconografia ben consolidata, alla quale ogni artista si attiene per rappresentare l’irrappresentabile. La vita quotidiana può essere rappresentata solo come contorno ai fatti spirituali ed i personaggi hanno dimensioni diverse in base alla loro importanza (un po' come in Egitto), oltre che un’anatomia idealizzata (mancano i ritratti veri e propri).

È comune pensare che la bellezza sia accompagnata dalla bontà e dal buon auspicio: la bellezza di per sé è considerata come una promessa di fortuna. Anche i canoni di bellezza sono quindi molto precisi, alcuni scritti della letteratura possono aiutare a capire quali fossero (e in parte sono tutt’ora) i canoni estetici principali della cultura indiana:
  • Postura eretta, molto dritta
  • Corpo mediamente formoso (non troppo né troppo poco)
  • Membra tornite, in modo che non si vedano sporgere le articolazioni e le giunture
  • Mani sottili con dita dritte e piedi carnosi senza vene in vista
  • Vita sottile: indica femminilità verginale, una donna che non ha figli, quindi è molto giovane ed ancora fruibile per la prima volta
  • Fianchi larghi
  • Tre pieghe sulla pancia e sul collo: canone valido anche per la figura maschile (si pensi allo stesso Buddha), indicano prosperosità e sono proprie della bellezza ideale. È un particolare etnico
[Alcuni, più che altro gli anziani, ritengono questa correlazione valida ancora oggi. Questo testimonia come l’arte sia l’idealizzazione di qualcosa che si vede continuamente nella vita reale; non a caso tra India del Nord e India del Sud ci sono molte differenze anche a livello artistico.]
  • Naso come fiore di sesamo
  • Tutta questa abbondanza influisce sull’incedere: deve essere sinuoso come quello di un elefante, che è grosso ma elegante. Anche l’abbigliamento fa la sua parte: il sari è indossato in un modo che non permette di fare lunghe falcate, ma solo passettini molto corti
  • Abiti: sottili e aderenti, ad esaltare la morbidezza dei corpi (nudità come ascesi e rinuncia totale)
  • Pelle chiara: indice di appartenenza ad uno stato sociale elevato, è sempre stata una caratteristica delle classi nobili e la suddivisione in caste ha fatto sì che queste differenze permanessero
  • Occhi scuri
  • Ai capelli viene prestata particolare attenzione, sono considerati l’espressione della femminilità

Per essere perfetti, i capelli devono essere:

  • Lunghi, ma raccolti ed ordinati. Oggi si usano le trecce, una volta c’erano acconciature più articolate. Se una donna ha i capelli sciolti può significare lutto, lontananza del marito, oppure una forza femminile negativa. È un canone ancora abbastanza diffuso 
  • Lisci, sempre in riferimento alla nobiltà: le classi inferiori capita più spesso che li abbiano ricci (forse a causa di origini negroidi)
  • Nero lucido, assolutamente non scoloriti. Solo gli asceti li hanno incolti e scoloriti 

È chiaro che con tutti questi canoni da rispettare, l’artista non può permettersi innovazioni. I sentimenti personali non contano e vengono espresse soltanto delle verità universali: generalizzazione e spersonalizzazione. Difficilmente sappiamo chi è l’autore, l'artista (= artigiano qualsiasi), cura un'opera come via per la perfezione.

Il punto focale dell’arte indiana è quindi il fruitore, colui che deve poter comprendere le realtà superiori raffigurate e farle proprie. Ciò che l’opera ben riuscita comunica è il succo (rasa) e le essenze principali sono nove: amoroso, comico, patetico, furioso, eroico, terribile, disgustoso, meraviglioso e pacificato. L’uomo colto, educato a cogliere il succo dell’opera, integra questa esperienza estetica con l’afflato spirituale.


R.M.

mercoledì 26 ottobre 2011

L'apparizione

Per via del suo gusto marcatamente intellettualistico, Gustave Moreau predilige la pittura su grande formato e di soggetto storico o mitologico. Come Puvis, Moreau è un precorritore del simbolismo vero e proprio: con lui i temi colti e letterari della pittura contemporanea si caricano di una nuova sensibilità, fondata su una visione interiore.


L'apparizione (1876) rappresenta una libera interpretazione della storia biblica del re Erode e di Giovanni Battista. In realtà la protagonista di tutto il dipinto, così come nell'opera teatrale di Oscar Wilde, è la principessa Salomè: con la sua danza seduce il re, costringendolo a giustiziare Giovanni. 
La versione analizzata qui è particolarmente efficace, proprio perchè già dal titolo è chiarissima la rinuncia alla precisione narrativa. Non c'è la danza di Salomè, e nemmeno la presentazione della testa da parte del boia. C'è invece un gesto molto coreografico della principessa, che sembra pietrificata nell'indicare la macabra apparizione del capo mozzato di Giovanni. La testa levita magicamente al centro dello spazio, al di sopra di tutti, irradiando la scena di una luce mistica e irreale. 

L'attenzione è senza dubbio spostata sull'interiorità, sulle pulsioni e sugli istinti più primordiali. La centralità della macabra apparizione ci permette di inserire a pieno titolo questa tela tra i dipinti simbolisti, in quanto attraverso di essa Moreau dà forma ad un nuovo archetipo femminile. La donna non è più relegata a mero oggetto di desiderio maschile, ma mette in atto una sorta di liturgia precisa servendosi del proprio fascino e della propria sensualità.


R.M.

martedì 25 ottobre 2011

L'arte come maestra di vita.

«Ogni arte è nel tempo stesso superficie e simbolo.
Chi va oltre la superficie lo fa a suo rischio e pericolo.
Chi decifra il simbolo lo fa a suo rischio e pericolo.
L'arte in verità non rispecchia la vita, ma lo spettatore. (...)
Tutta l'arte è completamente inutile.»


- Oscar Wilde


È così che Wilde conclude l'introduzione al Ritratto di Dorian Gray, ed esprime alcune verità fondamentali riguardanti l'arte: un insieme di superfici e simboli, una fusione tra il concetto che viene rappresentato e la parte materiale che lo rappresenta. 
Proprio da qui deriva una delle grandi bellezze dell'arte, il fatto che possa esprimere qualcosa di profondo, che sfugge allo spettatore distratto ma non a colui che vuole davvero capire. Ed essendo che non esiste il manuale d'interpretazione di ogni opera, è naturale che l'interpretazione dell'opera stessa sia un rispecchiarsi di quello che noi crediamo. Possiamo vedere l'opera come a noi piace di più, come ce la sentiamo più vicina. Alla luce di tutto questo, quindi, il fatto che l'arte sia "inutile" è chiaramente uno dei paradossi di Wild. L'arte è tutto fuorchè inutile, ci indica la strada per guardare dentro noi stessi e per interpretare i simboli della vita. 



R.M.

giovedì 6 gennaio 2011

Le Fanciulle di Puvis

Quello di Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898) è un classicismo fuori dal tempo e dalla storia, che vuole contrapporre il mito virgiliano dell'età dell'oro alla crisi politica e sociale che sta vivendo la Francia in quel periodo.

La sperimentazione formale dell'artista si spinge più a fondo nelle opere di soggetto libero, come
Fanciulle in riva al mare (1879).Guardando questo quadro sorge un interrogativo riguardo la sua interpretazione: non si capisce se si tratta di una triplice riproduzione di un solo corpo in diverse posizioni ed armonie cromatiche, oppure se sia la riproduzione simbolica dei tre stati dell'essere (passivo, attivo, contemplativo).

Lo stesso interrogativo è inoltre applicabile anche a
Lusso I (Henri Matisse, 1907), tela influenzata dalla visione delle Fanciulle di Puvis de Chavannes.


Personalmente per quanto riguarda il movimento simbolista preferisco i soggetti di Carlos Schwabe (es.
La morte del becchino ), ma probabilmente Puvis de Chavannes è ancora più simbolista, se si può dire, proprio perchè anche lo stesso stile pittorico viene usato al preciso scopo di indicare un sentimento ed un desiderio interiore.


R.M.