Per cominciare questo nuovo ciclo riguardante l'arte indiana è bene fare una premessa: solo
una parte dell’arte indiana si è conservata, un po’ come in
tutte le civiltà. In questo caso particolare però le motivazioni sono
molteplici, una su tutte è quella del clima
caldissimo e umidissimo:
si sono conservate le cose più resistenti ed i manufatti sono andati
persi molto velocemente. Solo nel III
secolo si ha una grande svolta con l’utilizzo della pietra, con cui vengono rinforzate molte costruzioni in legno già esistenti.
Quello della pietra però è un metodo
parecchio laborioso, impegnativo e costoso, è finanziato da sovrani e ricchi mercanti. Attraverso questo tipo di costruzioni, infatti, da un lato cercano maggiori meriti religiosi e dall'altro sfoggiano la loro potenza (cercano di ingraziarsi gli dei): infatti la pietra viene adoperata principalmente per costruire luoghi dedicati al culto e alla meditazione. Un fatto interessante è che non sono stati trovati esempi di scultura a tutto tondo, ma solo rilievi. I testi
parlano anche di arte laica, di cui però è stata trovato poco,
anche perchè la prima parte dell’arte indiana non prevede l’uso
delle immagini, nemmeno per gli dei. Inoltre non sappiamo quasi nulla nemmeno di come
fossero le residenze di principi e sovrani, né di come fosse la
pittura.
Nonostante
tutto questo, però, l’arte indiana influenza
moltissimo tutta l’Asia: in quanto essenzialmente religiosa intende evocare principi
metafisici e si costruisce su dei simboli. È presente un’iconografia
ben consolidata, alla quale ogni artista si attiene per rappresentare
l’irrappresentabile. La vita quotidiana può essere rappresentata
solo come contorno ai fatti spirituali ed i personaggi hanno
dimensioni diverse in base alla loro importanza (un po' come in Egitto), oltre che
un’anatomia idealizzata (mancano i ritratti veri e propri).
È comune pensare che la bellezza sia accompagnata dalla bontà e dal buon auspicio: la bellezza di per sé è considerata come una promessa di fortuna. Anche
i canoni di bellezza sono quindi molto precisi, alcuni scritti della
letteratura possono aiutare a capire quali fossero (e in parte sono
tutt’ora) i canoni
estetici principali
della cultura indiana:
- Postura eretta, molto dritta
- Corpo mediamente formoso (non troppo né troppo poco)
- Membra tornite, in modo che non si vedano sporgere le articolazioni e le giunture
- Mani sottili con dita dritte e piedi carnosi senza vene in vista
- Vita sottile: indica femminilità verginale, una donna che non ha figli, quindi è molto giovane ed ancora fruibile per la prima volta
- Fianchi larghi
- Tre pieghe sulla pancia e sul collo: canone valido anche per la figura maschile (si pensi allo stesso Buddha), indicano prosperosità e sono proprie della bellezza ideale. È un particolare etnico
- Naso come fiore di sesamo
- Tutta questa abbondanza influisce sull’incedere: deve essere sinuoso come quello di un elefante, che è grosso ma elegante. Anche l’abbigliamento fa la sua parte: il sari è indossato in un modo che non permette di fare lunghe falcate, ma solo passettini molto corti
- Abiti: sottili e aderenti, ad esaltare la morbidezza dei corpi (nudità come ascesi e rinuncia totale)
- Pelle chiara: indice di appartenenza ad uno stato sociale elevato, è sempre stata una caratteristica delle classi nobili e la suddivisione in caste ha fatto sì che queste differenze permanessero
- Occhi scuri
- Ai capelli viene prestata particolare attenzione, sono considerati l’espressione della femminilità
Per essere perfetti, i capelli devono essere:
- Lunghi, ma raccolti ed ordinati. Oggi si usano le trecce, una volta c’erano acconciature più articolate. Se una donna ha i capelli sciolti può significare lutto, lontananza del marito, oppure una forza femminile negativa. È un canone ancora abbastanza diffuso
- Lisci, sempre in riferimento alla nobiltà: le classi inferiori capita più spesso che li abbiano ricci (forse a causa di origini negroidi)
- Nero lucido, assolutamente non scoloriti. Solo gli asceti li hanno incolti e scoloriti
È chiaro che con tutti questi canoni da rispettare, l’artista non può permettersi innovazioni. I sentimenti personali non contano e vengono espresse soltanto delle verità universali: generalizzazione e spersonalizzazione. Difficilmente sappiamo chi è l’autore, l'artista (= artigiano qualsiasi), cura un'opera come via per la perfezione.
Il
punto focale dell’arte indiana è quindi il fruitore,
colui che deve poter comprendere le realtà superiori raffigurate e
farle proprie. Ciò che l’opera ben riuscita comunica è il succo
(rasa)
e le essenze principali sono nove: amoroso, comico, patetico,
furioso, eroico, terribile, disgustoso, meraviglioso e pacificato.
L’uomo colto, educato a cogliere il succo dell’opera, integra
questa esperienza estetica con l’afflato spirituale.
R.M.
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