martedì 17 gennaio 2012

Le raffigurazioni erotiche sui templi

Sulle pareti dei templi indiani, oltre alle figure degli dèi hindu, è frequente la rappresentazione di uomini e donne in esplicito atteggiamento erotico: sono presenti scene di gruppo, a volte anche con l'inclusione di animali. Queste immagini sono presenti praticamente in tutta l'arte sacra indiana, principalmente si hanno coppie in atteggiamenti casti o blandamente sensuali, ma intorno al X secolo iniziano a diffondersi su larga scala anche quelle più apertamente erotiche.

Viene naturale chiedersi com'è possibile che queste immagini così spinte si possano conciliare con il messaggio di un edificio sacro come il tempio. La risposta c'è, ma non è univoca. 
Di base la rappresentazione della coppia (mithuna) o del sesso (maithuna) ha una valenza positiva, è di buon auspicio e genera prosperità. Si dice per esempio che i maithuna proteggano il tempio dai fulmini. Il moltiplicarsi di queste raffigurazioni fa sorgere però riflessioni più profonde, come l'ipotesi che ci siano diversi livelli di comprensione da parte dei fedeli. Ci potrebbero essere infatti spiegazioni esoteriche, riservate ai più esperti, e spiegazioni più popolari, dedicate ai meno colti e forse anche a coloro che per motivi di casta non potevano entrare.

Una cosa su cui non ci sono dubbi è che, in qualche modo, si è di fronte al culto della fertilità, già dagli albori infatti c'erano oggetti votivi o rituali che includevano questo tipo di immagini. Nei secoli poi la cultura indiana si evolve, da una parte diventa più sensuale e dall'altra valorizza la sessualità come strumento etico e religioso. E' importante sottolineare che l'induismo non è una religione soltanto ascetica, ma al contrario riserva uno spazio molto importante all'amore umano. Le dottrine canoniche hindu prevedono che ogni uomo debba perseguire tre scopi nella sua vita:
  • Kama, cioè la soddisfazione del piacere fisico, cui è dedicata la lettura del Kamasutra. Si tratta di un libro che illustra anche i comportamenti che conducono alla felicità amorosa, non solo l'erotismo.
  • Artha, cioè il benessere economico.
  • Dharma, cioè la rettitudine.
Una volta che sono stati raggiunti questi tre scopi si deve cercare di raggiungere lo scopo supremo, cioè la salvezza e la liberazione (Moksha).

Siccome i templi vogliono essere un'immagine del mondo, probabilmente le raffigurazioni erotiche sono solo un modo per dare spazio anche al Kama. Oltretutto l'immagine dell'unione d'amore è anche da considerare come una potente metafora del piacere sublime che l'anima individuale potrebbe avere nell'unione con Dio.
La connessione fra il sesso e le massime mete religiose è valorizzata specialmente dal tantrismo, corrente fortemente ritualistica che si afferma sia nel buddhismo sia nell'induismo: prevede dei riti erotici che servono a dilatare e reintegrare la coscienza. Sono pratiche esoteriche e non è semplice riuscire a collegare una precisa scuola tantrica con un preciso tempio, quindi è improbabile che le incisioni di cui stiamo parlando siano relative al tantrismo; situazioni come questa aiutano però a comprendere come la raffigurazione del sesso sia pienamente accettata in ambito religioso.

Nei santuari medievali, inoltre, si era diffusa una forma di prostituzione sacra. C'erano donne che vivevano nel tempio e partecipavano al culto come danzatrici; le immagini erotiche possono quindi aver tratto spunto anche da questa usanza.

Qui sotto alcuni esempi di scene erotiche scolpite sugli esterni del tempio di Kandariya Mahadeo, o "Tempio dell'amore" (arte Chandella, inizio dell’XI secolo d.C., presso Khajuraho, Madhya Pradesh).






R. M.

giovedì 12 gennaio 2012

Le grotte di Ajanta: il chaityagriha n.19 e il vihara n.1

Le grotte di Ajanta non sono vere e proprie grotte, bensì monumenti buddhisti scavati interamente nella roccia. La scelta di questo tipo di architettura non è ovvia, ma probabilmente è dovuta ad una serie di fattori quali: il fatto che nella concezione indiana gli dèi abitano sulle montagne, che le grotte naturali sono da sempre il ritiro prediletto per gli asceti, che nei mesi di monsone i monaci buddhisti itineranti si dovevano rifugiare temporaneamente nelle grotte naturali, e non da ultimo che si voleva rendere eterne nel tempo le strutture. 

Questa pratica è comune sia all'arte buddhista, sia a quella hindu, sia a quella jaina, naturalmente ogni centro si differenzia dagli altri per qualche caratteristica particolare, ma la struttura di base è sempre la stessa.

  • La sala di culto corrisponde a un tempio ed è chiamata chaityagriha, la parola chaitya equivale a stupa ed è infatti uno di questi “tumuli” a costituire l'oggetto di devozione infondo alla sala (in un altro momento approfondiremo anche questo aspetto). Il classico chaityagriha ha pianta absidale ed è diviso in tre navate, quella centrale è più larga e conduce all'abside in cui è collocato lo stupa e attorno al quale è possibile fare il percorso rituale di adorazione. Naturalmente in questo caso parliamo di stupa poichè ci stiamo occupando di un complesso monastico buddhista, al variare della religione varia anche l'oggetto di culto. 
  • Le residenze dei monaci (vihara) sono sempre in numero maggiore rispetto alle sale di culto. Sono costituite da un portale che dà accesso ad una sala quadrangolare lungo i cui lati si aprono le piccole celle. Questa sala nella roccia è la riproduzione del cortile che c'è negli edifici costruiti normalmente. Con il tempo le sale si strutturano anche su più piani (fino a 3) e si arricchiscono di colonne e cappelle per il culto, tanto da arrivare a volte a sostituire gli stessi chaityagriha.
I complessi monastici scavati nella roccia sono davvero molto numerosi, ma il più prestigioso per l'architettura rupestre è quello di Ajanta. Viene scoperto per caso nel 1819 durante una battuta di caccia inglese, ed è costituito da una trentina di grotte, numerate a seconda della loro posizione: i chaityagriha sono quattro, mentre il resto sono vihara, e sono presenti anche alcune grotte non terminate che mostrano che gli scavi venivano compiuti partendo dall'alto così da non dover usare impalcature.
Il gruppo centrale del complesso è il più antico e risale alla prima fase del culto buddhista (Hinayana - "piccolo veicolo"), la sua grande fioritura però avviene verso la fine del V secolo (Mahayana - "grande veicolo"). È in questa seconda fase che si collocano il chaityagriha n.19 e il vihara n.1.

Il chaityagriha n.19 è uno dei più spettacolari poichè ha moltissime colonne finemente decorate e ha la particolarità di avere una grande figura del Buddha situata sulla facciata dello stupa. Qui sotto potete ammirarne la bellezza.


La particolarità del vihara n.1 invece sta nel fatto che al suo interno è presente uno dei dipinti murali più celebrati nel buddhismo, quello del Bodhisattva Padmapani. I Bodhisattva sono delle figure mitologiche che rimandano il momento della propria illuminazione per soccorrere gli uomini trascinati nel turbinio delle esistenze. Quello di cui parliamo è quindi uno di questi esseri perfettissimi ed ha la particolarità di avere un loto in mano (la traduzione di Padmapani è proprio "con un loto nella mano"). 


Come detto in precedenza, nel corso della seconda fase anche i vihara iniziano ad essere dedicati al culto ed infatti questo dipinto si trova all'interno di un sacrario, insieme ad un altro dipinto di un altro Bodhisattva. Come in tutte le altre raffigurazioni di questo tipo il soggetto deve racchiudere al suo interno sia la dolcezza e la compassione, sia la forza e il potere di guidare altri esseri a lui inferiori. Il 
volto è lievemente chino e assorto (a indicare l'introspezione), la bocca ha una piega che però non sorride, le ampie spalle ricordano un essere poderoso che domina l'esistente, il cesello del diadema mette in risalto la raffinata arte orafa, la mano che regge il loto è quasi un'opera d'arte a sé stante. Alcuni tocchi di bianco conferiscono volume e luminosità al dipinto: la luce infatti non cade in modo direzionale sulle scene, ma si irradia tutto attorno.

La cosa più misteriosa riguardo questi dipinti è la loro fruizione, perchè le grotte dove sono situati sono molto buie e le lampade a olio non avrebbero mai potuto illuminarli nella loro interezza e bellezza. Anche per la loro realizzazione molto probabilmente ci furono parecchi problemi in questo senso e sicuramente gli artisti hanno dovuto incanalare la luce dall'esterno, forse con dei teli bianchi.

Un'ultima precisazione che va fatta è quella riguardo la tecnica di realizzazione, sono infatti definiti affreschi anche se in realtà sono stati eseguiti su una base secca. La pietra veniva pareggiata con fango e fibre vegetali, veniva poi steso sottile strato di intonaco; solo allora si tracciavano i contorni con il cinabro, poi il tutto veniva colorato con dei pennelli di peli, alla fine venivano ripassati di nuovo contorni, e il dipinto finito veniva lucidato con una pietra liscia.
Questi di cui abbiamo parlato sono i pochissimi esempi di pittura murale rimasti, e sono molto preziosi oltre che per la loro simbologia, anche per la loro unicità. 


R.M.