venerdì 2 novembre 2012

Cassandra. Le idee del 2001 e i fatti del decennio.

Milano, Palazzo della Ragione. Un grande salone dedicato alla lungimirante quanto scomoda riflessione nata dal contro-vertice di Genova nel luglio 2001, movimento che tutti sappiamo essere stato brutalmente represso in episodi che caratterizzano le peggiori pagine della nostra democrazia. A partire dalle analisi proposte in quell’occasione, la mostra propone oltre 250 opere e guida lo spettatore in un viaggio attraverso gli ultimi dieci anni di storia. 
Il colonnato centrale ha la funzione di “spina dorsale” dell’esposizione, poichè ospita una cronologia molto dettagliata di tutto il decennio: undici pannelli illustrano i fatti da non dimenticare, insieme a diverse prime pagine e un centinaio di vignette di Vauro, Altan ed Ellekappa. Le pareti sono invece riservate quasi esclusivamente alle opere dei fotografi e a diversi monitor che proiettano filmati di repertorio; in questo caso il percorso non segue un andamento di tipo cronologico bensì tematico: economia e lavoro, beni comuni, guerra e repressione, società e diritti. Ognuna di queste sezioni è accompagnata da descrizioni e osservazioni personali di grandi giornalisti, opinionisti e scrittori. Alla fine del percorso è stato inserito anche un piccolo contributo riguardante la città di Milano, con fotografie che vogliono raccontare l’impegno di donne, giovani e lavoratori milanesi nella difesa dei diritti e dei valori fondamentali. 
Questa esposizione parte senza dubbio da un’idea molto interessante, ma purtroppo ci sono svariate lacune per quanto riguarda la sua realizzazione pratica. Il difetto maggiore, che si percepisce subito all’ingresso, è la mancanza di chiarezza riguardo il percorso da intraprendere: la parte centrale del salone segue un andamento di tipo cronologico mentre quella laterale ne segue uno di tipo tematico, questo sicuramente disorienta lo spettatore, che non capisce subito da che parte deve andare ed è costretto a fare lo stesso percorso due volte per osservare con attenzione entrambe le sezioni. Inoltre le opere lungo le pareti sono disposte in senso antiorario, così come i pannelli testuali di accompagnamento; anche questo è un elemento innaturale, che sicuramente non aiuta ad immergersi pienamente nel percorso espositivo. Ancora riguardo i pannelli testuali, non sono state assolutamente rispettate le proporzioni spazio-testo: tra la sezione centrale e quella laterale c’è una grande area libera, situazione ideale per pannelli di grandi dimensioni, che consentano alle persone di leggere senza fatica e distribuirsi nello spazio in modo omogeneo. In questa esposizione accade invece il contrario, sono infatti presenti testi decisamente troppo lunghi e per niente incisivi, relegati in spazi piccolissimi e scritti con caratteri minuscoli e talmente fitti da costringere le persone ad avvicinarsi molto per leggere. In questi testi scarsamente fruibili ci sono anche le informazioni relative alle fotografie esposte, ma sarebbe stato sicuramente più utile scrivere poche cose direttamente sotto ogni fotografia piuttosto che costringere lo spettatore a leggere tutto per poi andare a cercare con gli occhi l’opera di cui sta leggendo. Anche perché in questo modo gli scatti sarebbero stati più distanziati tra di loro e non avrebbero portato confusione al primo impatto visivo. Mostra interessante, quindi, ma che non rende giustizia all’idea che ne sta alla base.

R.M.

sabato 6 ottobre 2012

Pablo Picasso. Capolavori dal Museo nazionale Picasso di Parigi.

Massacro in Corea, 1948.

In questi giorni presso Palazzo Reale è possibile fare un interessantissimo viaggio nel tempo. Mi riferisco alla retrospettiva dedicata a Pablo Picasso, a Milano fino al 6 gennaio 2013.

Già nel 1953 e nel 2001 la città aveva ospitato l'opera del grande artista spagnolo, il successo fu tale che la sezione iniziale dell'attuale mostra è riservata proprio all'omaggio della prima esposizione. Documenti epistolari e fotografici ripercorrono infatti l'arrivo di Guernica dal MoMa di New York e la sua esposizione nella grande Sala delle Cariatidi. 

Dopo questa breve parentesi introduttiva si entra subito nel vivo della mostra. Guernica non è presente, ma vengono proiettate a grandezza naturale le immagini della sua elaborazione e dei suoi studi. Molto importante è anche la presenza di Massacro in Corea, che invece nel 1953 era assente all'esposizione di Roma, per non turbare la sensibilità dell'alleato americano. In questa prima sala si ha immediatamente la percezione della filosofia e della poetica che stanno alla base dell'opera di Picasso, due grandi wall sono infatti interamente dedicati a citazioni che ne disvelano l'essenza. 

Tutto il percorso segue poi una struttura di tipo cronologico, vengono infatti affrontate poco per volta le varie fasi della crescita artistica di Picasso tra il 1900 e il 1972. Ci sono esempi del periodo blu e di quello rosa, della ricerca africana e del proto-cubismo, vengono illustrate tutte le fasi del cubismo, da quello Sintetico a quello Classico, non mancano le opere surrealiste e nemmeno quelle in cui si manifesta chiaramente il suo impegno politico. Quindici sale che rapiscono lo spettatore per due ore, accompagnandolo passo per passo nella crescita dell'artista e rendendo sempre più esplicito il concetto di trompe-l'esprit, appena accennato in uno dei due wall della Sala delle Cariatidi. Se con il trompe-l'oil si inganna l'occhio, con il trompe l'esprit Picasso vuole ingannare lo spettatore fin dentro l'anima e spingerlo oltre al suo abituale concetto di realtà. Da qui il termine di surrealismo, inteso come rappresentazione della natura in modo "più reale del reale". 

L'impronta di tutta l'esposizione è chiaramente di matrice didattica, elemento suggerito sia dalla scelta di disporre le opere in ordine cronologico, sia dall'elevato numero di pannelli esplicativi presenti, sia dalla precisione e dalla chiarezza di questi ultimi. Le pecche da segnalare sono due: le targhe e il posizionamento del Massacro in Corea. Le prime, infatti, non sempre sono posizionate accanto alle opere cui si riferiscono e capita che si crei un po' di confusione; per quanto riguarda l'opera del 1948 invece non è molto chiaro il significato della sua presenza nella prima sala. Forse si tratta di una scelta dovuta all'importanza del dipinto, ma credo che proprio per questo sarebbe stato meglio posizionarla con le altre in ordine cronologico, consentendo quindi allo spettatore di fruirne in seguito ad una giusta maturazione e presa di coscienza graduale. Ciò detto, però, è importante notare che di mostre di Picasso se ne sono viste molte negli ultimi anni, ma questa sembra essere la più rappresentativa di tutte, sicuramente anche grazie agli essenziali prestiti del Musée National Picasso di Parigi. 

R.M.

venerdì 31 agosto 2012

Quello che non sapevi sull'arte egiziana




Le due fotografie proposte aiutano a capire quanto l'unione di diversi popoli e diverse culture sia determinante non solo dal punto di vista sociale, ma anche dal punto di vista artistico e culturale. Contrariamente a quanto forse si potrebbe pensare dopo una prima occhiata, le due maschere funerarie proposte sono entrambe egiziane.
La prima è la famosissima maschera di Tutankhamon e costituisce un classico esempio di arte egizia pre-romana: defunto bellissimo, chiaramente idealizzato. La seconda invece ha subìto le influenze romane. Dopo aver colonizzato l’Egitto, infatti, i romani si integrano con le tradizioni locali tanto da introdurne il realismo nell’arte funeraria. Il volto riprodotto è molto probabilmente quello del defunto mummificato.

R.M.

martedì 28 agosto 2012

La mistica popolare dell’azione ed il patriota rivoluzionario

Nei murales dell’Irlanda del Nord l’eroismo comunitario viene rappresentato attraverso la raffigurazione del gesto eroico, tale azione è compiuta da figure ignote che personificano la collettività. Un esempio di questo tipo di espressione è il noto murales The petrol bomber (sopra), che raffigura un ragazzo con indosso una maschera antigas e una molotov in mano; il disegno originale deriva da uno scatto del fotografo Clive Limpkin (Kelly, 2011). È una scena di guerriglia urbana e il primo piano ravvicinato vuole far emergere le connotazioni psicologiche e creare una forte intimità con l’osservatore; il sapiente uso dei colori e dei piani incrociati permette alla scena di guerra alle spalle del ragazzo di acquistare una grande profondità sia grafica sia emotiva: il giovane sembra tanto superiore ed imponente per via dell’asse ottico inclinato verso l’alto e del nero usato per il giubbotto e per la maschera antigas.
Una situazione simile è ricreata con The Rioter (sotto), in cui un ragazzo lanciatore di pietre visto di spalle si protegge con una grata e fronteggia i blindati britannici che stanno invadendo le aree cattoliche. In nessuno dei due casi descritti è possibile identificare una persona fisica nota, rappresentano quindi tutto il popolo e tutti i cattolici nordirlandesi; anche la giovane età dei combattenti rappresentati evoca la lotta del nuovo contro il vecchio.
“La città stessa e i suoi murales aiutano la comunità a ricordare e a fare del ricordo un monito all’azione che diviene comunitaria perché tutti possono divenire protagonisti sacrificando la propria individualità per l’Irlanda.” (Guerra, 2011, p. 47).



R.M.

martedì 22 maggio 2012

Il grande masturbatore

Il grande masturbatore, Salvador Dalì (1929).

Dalì era terrorizzato dalle cavallette, egli stesso scrive:
Ho ormai trentasette anni, e le cavallette mi fanno esattamente la stessa paura di quand’ero adolescente. No, non esattamente: di più. Se mi trovassi sull’orlo del precipizio, con una grossa cavalletta alle spalle, salterei nel vuoto per sfuggirle.
Questa grande ossessione lo portò a dipingere l’animale molto spesso. Nel quadro in esame la cavalletta ha una forma piuttosto geometrica e dura, che sta attaccata al capo molle di Dalì creando un contrasto molto forte. Dove c’è l’insetto poi è da notarsi che dovrebbe esserci la bocca, ma è del tutto assente: la fobia dell’artista si manifestava infatti con attacchi isterici durante i quali perdeva il controllo e la voce.


R.M.

domenica 6 maggio 2012

Gustav Klimt. Disegni intorno al fregio di Beethoven.

Il 2012 è l'anno in cui si festeggia il 150° anniversario della nascita di Gustav Klimt e anche la Provincia di Milano ha partecipato alla grande commemorazione promuovendo la mostra a lui dedicata, visitabile dal 4 febbraio al 6 maggio presso lo Spazio Oberdan.

Nella prima sala del percorso espositivo è possibile ammirare i manifesti originali della Secessione viennese, accompagnati da alcuni numeri della rivista Ver Sacrum. Già da questo momento, complici le luci soffuse e i numerosi pannelli informativi, si ha l'impressione di trovarsi in una dimensione altra, in cui si percepisce molto facilmente lo spirito di innovazione e di cambiamento che dominavano il movimento; è interessante notare come l'allegoria e la metafora siano presenti fin dall'inizio, e quanto la loro forza sia prorompente in ogni manifesto e in ogni copertina.
La seconda parte della visita consiste nella parziale ricostruzione in scala 1:1 del Fregio di Beethoven, nella cui sala non manca il risuonare della Nona Sinfonia di Beethoven. Il fregio fu dipinto nel 1902 da Klimt in occasione della XIV mostra Secessionista presso il Palazzo della Secessione, si tratta di un'opera di dimensioni maestose e divisa in tre parti sia a livello concettuale sia di fruizione. Nella collocazione originale, infatti, si ha una parete lunga sulla sinistra per L'anelito alla felicità, una frontale più corta per Forze ostili, e nuovamente una lunga sulla destra per Inno alla Gioia; la musica era presente perchè con questo fregio l'artista si riproponeva di dimostrare che è possibile realizzare l'opera d'arte totale, che fonde cioè in se stessa arte, musica, poesia. Nel caso dello Spazio Oberdan la ricostruzione è parziale, in quanto la prima parete è presente soltanto in parte e in scala ridotta, mentre le altre due è possibile osservarle in tutta la loro interezza e maestosità. 
Proseguendo nel percorso si ha modo di conoscere un altro aspetto del lavoro di Gustav Klimt, ossia la sua grande attenzione ai dettagli e l'infinito studio che dedicava ad ogni figura ritratta: sono infatti esposti i suoi disegni e le sue bozze. La sensualità e la naturalezza che traspare da questi studi sono di una bellezza e di una immediatezza disarmante. 
Concludono la visita un interessante video sulla vita dell'artista ed uno spazio relax in cui poter gustare del caffè offerto da Bialetti, sponsor dell'esposizione.

Il percorso espositivo è dunque molto articolato, perchè comprende sia una parte più generale di introduzione al movimento sia una più particolare dedicata soltanto a Klimt e al fregio, ma è un'esposizione completa e davvero ben gestita. Il visitatore ha infatti la possibilità di apprendere molto sull'argomento perchè i pannelli di accompagnamento sono approfonditi e di facile lettura e comprensione. Una pecca da segnalare è la ricostruzione del fregio, non si tratta tanto della qualità, quanto più della collocazione totalmente diversa rispetto all'originale. La prima parete è presente solo in parte e in scala ridotta, la seconda è in scala 1:1 ed è splendida, mentre la terza è sì in scala 1:1 ma è spezzata su due pareti. Così facendo, pur riproducendo nel dettaglio le due pareti, si è andata a perdere la visione d'insieme dell'opera e quindi anche un po' della sua carica emotiva e poetica. La scelta di collocare i disegni alla fine è invece decisamente pregevole, poichè il visitatore giunge a quella sezione dopo aver osservato le riviste, i manifesti, il fregio, e ha in mente in modo più chiaro tutto il contesto senza il quale non sarebbe possibile apprezzarli pienamente. 

Probabilmente una ricostruzione del fregio più fedele all'originale avrebbe portato alla completa promozione di questo evento, ma è indubbio che nonostante tutto la sua fruizione sia un'esperienza molto particolare, che tutti dovrebbero fare. Non è infatti un'esposizione autoreferenziale e rivolta ad un pubblico esperto, ma riesce ad insegnare e trasmettere nuovi contenuti, per questo motivo è accessibile e comprensibile anche ad un visitatore poco informato, e si tratta di un pregio davvero lodevole.


R. M.

domenica 4 marzo 2012

La transavanguardia italiana.

Quella sulla transavanguardia italiana è un'interessante mostra ospitata al Palazzo Reale di Milano. Oggi sarebbe dovuto essere l'ultimo giorno di esposizione ma il suo grande successo ha fatto sì che venisse prolungata fino al 22 aprile. 

I cinque artisti esposti fanno parte di un movimento che vuole attingere dal materialismo delle avanguardie novecentesche per poi superarlo e recuperare il gusto della pittura e del processo creativo, ricercando la comunicazione con il mondo circostante in modo armonioso ma non diretto e lineare. Nasce negli anni Ottanta e i contributi degli anni precedenti sono spesso molto evidenti, come per esempio la riduzione dell'immagine agli elementi essenziali e l'utilizzo di colori forti e d'impatto. La ricerca del contatto con le tradizioni primordiali è testimoniata anche dai numerosi esperimenti a livello tecnico e dall'uso di diversi materiali applicati alle tele.

La prima sala del percorso è dedicata interamente ai pannelli introduttivi, si entra poi nel vivo della mostra con le sale dedicate ai vari artisti.
Nicola De Maria: la sintesi in questo artista è assoluta, i colori sono molto forti e dominano il rosso, il blu e il verde; le linee del suo "Gialla canzone del mare" portano subito alla mente quelle di Kandinsky nella "Dolce salita".
Francesco Clemente: è chiaramente uno degli esponenti della transavanguardia più vicini in assoluto al neoespressionismo, dominano infatti i colori cupi ed una visione drammatica della vita. 
Sandro Chia: anche qui l'esplosione dei colori è evidente ma a differenza di De Maria l'impatto è meno forte, forse anche per via del fatto che i soggetti sono molto meno astratti. Il tributo futurista è piuttosto evidente, specialmente in "Due pittori al lavoro". 
Mimmo Paladino: la caratteristica di questo artista è il superamento della bidimensionalità pittorica grazie all'utilizzo di materiali plastici e oggetti di recupero; l'esempio più lampante di questo stile si ha con l' "Affurtunato".
Enzo Cucchi: l'ultima parte del percorso porta a scoprire un'arte più delicata, con colori tenui e linee gentili. Degno di nota è l'utilizzo massiccio della carta fotografica applicata alla tela, una tecnica pittorica decisamente particolare. Molto interessante è "Fare un quadro", il cui supporto è bucato.

Nonostante gli stili differenti e le diverse tematiche affrontate, una caratteristica che unisce tutti e cinque gli artisti è chiaramente quella dell'amore per la sperimentazione, sia per quanto riguarda la tecnica mista, sia per l'utilizzo dei supporti più diversi (tela, lino, carta fotografica). Un altro elemento comune è costituito dalle grandi dimensioni delle opere: si tratta certamente di una scelta legata anche alla loro ricerca di comunione con il mondo e di integrazione dell'opera d'arte con l'ambiente circostante. 

C'è anche una sala video in cui è possibile ascoltare la voce del curatore Achille Bonito Oliva e degli artisti. Si tratta sicuramente di un contributo importante, ma che va a sommarsi ai numerosi pannelli informativi situati all'ingresso e lungo tutto il percorso, provocando forse un eccesso di parole pompose e autoreferenziali che confonde il fruitore della mostra. 
Oltre a questo c'è poi da considerare che la grafica dei pannelli lascia molto a desiderare dati i caratteri decisamente piccoli, gli errori di battitura, la lunghezza spropositata dei testi, e l'inefficacia didattica degli stessi. In alcuni casi addirittura sono stati notati imperdonabili errori di accostamento tra i cartellini descrittivi e le opere esposte.

Si può quindi dire che l'esposizione è molto ricca a livello contenutistico, le opere esposte sono interessanti e offrono diversi spunti di riflessione e studio. Dal punto di vista didattico è però eccessivamente autoreferenziale e non molto chiara ad occhi inesperti e, considerando che si tratta di un movimento artistico decisamente poco conosciuto, forse sarebbe stato più efficace puntare più sulla chiarezza che sulla retorica.

(Fonte fotografie: sito ufficiale della mostra)


R.M.

venerdì 3 febbraio 2012

Pixar. 25 anni di animazione.

Se volete dimenticare per un paio d'ore la vostra età anagrafica e immergervi nel mondo di Toy Story, A Bug's Life, Monsters & Co., Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili, Cars, Ratatouille, WALL•E e Up, questo è il momento giusto per farlo. Alla mostra della Pixar, al PAC di Milano. Fino al 14 febbraio.

All'interno delle diverse sale sono presenti moltissimi lavori la cui bellezza sta, forse, proprio nel fatto che non sono nati per essere esposti. Si tratta di bozze, di esperimenti, di annotazioni. Guardando quei disegni si può entrare in contatto con un mondo completamente diverso da quello che traspare guardando il prodotto finito. 

«La ricchezza del patrimonio artistico che viene plasmato per ogni film raramente esce dai nostri studi, ma il prodotto finale – il lungometraggio – che raggiunge ogni parte del mondo, non sarebbe possibile senza questa fase artistica e creativa».

John Lasseterchief creative officer di 
Walt Disney and Pixar Animation Studio 
fondatore di Pixar (insieme a Steve Jobs)

Dei comunissimi fogli di carta, uniti ad altrettanto comuni matite, pastelli e pennarelli, acquistano nuova vita e grazie alla mano di un vero artista nascono stupendi paesaggi e giochi di colore. Ad accompagnare i disegni e le bozze ci sono anche alcuni esempi di modelli tridimensionali d'argilla, elaborati dagli scultori in modo che i modellatori in 3D abbiano sempre presente come si combinino tutte le parti del corpo dei diversi personaggi.

A interrompere la sequenza di disegni e modellini c'è un angolo dedicato ad una versione tridimensionale dello Zootropio in cui i personaggi di Toy Story, i giochi di luce, e la musica di sottofondo, catturano l'attenzione dei visitatori. 
Un'altra particolartià di questa esposizione è "Artscape", installazione multimediale ad alta risoluzione che permette di rivivere in versione animata tutto quello che si era visto poco prima su carta e argilla.

Al piano superiore l'esposizione si conclude con una sezione interamente dedicata ai filmati. 
Nella prima sala è possibile visionarne uno in cui vengono spiegati tutti i passaggi del processo creativo e in cui vengono portati degli esempi di come si sussegue la registrazione dei dialoghi, l'animazione, la cura dei dettagli, gli effetti sonori, ecc. Interessante notare ad esempio che i dialoghi vengono registrati per primi, solo in un secondo tempo entrano in gioco i disegnatori. Questo perchè le parole e la loro intonazione sono fondamentali per poter sapere come disegnare un personaggio. In una seconda sala sono esposti diversi schermi sui quali scorrono i diversi cortometraggi che hanno caratterizzato l'opera della Pixar nel corso del tempo, ed anche una breve anteprima di Brave, in uscita a giugno 2012.

Lungo tutto il percorso, e all'ingresso di ogni sala, ci sono moltissimi pannelli esplicativi grazie ai quali è possibile scoprire un po' alla volta il meraviglioso mondo Pixar. Subito all'ingresso viene spiegato, ad esempio, come lo strumento del "Colorscript" traduca visivamente il contenuto emotivo della storia, e come ne guidi lo sviluppo durante la narrazione. Mentre al piano superiore è spiegato nel dettaglio tutto il processo creativo, quello di cui parla anche il video.

I lati positivi di questa esposizione sono molti, a cominciare dalla sua caratterizzazione di tipo didattico. I pannelli informativi sono numerosi e ricchi di dettagli che riescono ad essere curiosi e davvero istruttivi. Di notevole importanza anche l'attenzione riservata al pubblico dei più piccoli, dando loro la possibilità di procurarsi audio-guide su misura, e di frequentare workshop gratuiti durante i fine settimana. 
Un gradevole diversivo è offerto, questa volta agli interessati di tutte le età, dall'iniziativa "Pixarizziamo la città": si tratta di varie collaborazioni con diverse strutture della città di Milano, quali l'acquario civico, il Museo della Scienza e della Tecnologia, ed il Museo di Storia Naturale, in cui i personaggi Pixar sono protagonisti. Interessante anche la possibilità di organizzare in loco un Corporate Event per le aziende, con visita guidata privata ed evento a tema.

C'è però una critica che mi sento di fare riguardo la disposizione del materiale esposto. Per prima cosa i disegni, le bozze ed i modelli sono disposti in modo apparentemente casuale, non è infatti chiaro quale sia il filo conduttore che porta da uno all'altro. Leggendo la cartella stampa ho intuito che Lasseter volesse mettere in evidenza le macrosezioni di "personaggio", "storia" e "mondo", ma tutto questo non è affatto evidente e se non lo avessi letto non avrei mai capito. In secondo luogo io personalmente i cortometraggi li avrei messi all'inizio dell'esposizione, trattandosi della cosa con cui la Pixar ha iniziato a farsi conoscere. L'ultimo appunto riguarda invece la presenza alla fine della mostra di una parete letteralmente tappezzata di Galaxy Tab, con un chiaro invito ad usarli per farsi fotografie e filmati. Credo che questo spazio palesemente dedicato allo sponsor (Samsung) sia piuttosto fuori luogo, e abbia fatto scadere un po' tutto il lavoro esposto in precedenza. 

Dal punto di vista emotivo comunque l'impatto è senza dubbio molto forte, chi ha amato i film d'animazione targati Pixar ed i suoi cortometraggi non può che amare questa presentazione. Nonostante alcuni difetti, a conti fatti di poca rilevanza, l'esposizione risulta promossa a pieni voti. 



R.M.

martedì 17 gennaio 2012

Le raffigurazioni erotiche sui templi

Sulle pareti dei templi indiani, oltre alle figure degli dèi hindu, è frequente la rappresentazione di uomini e donne in esplicito atteggiamento erotico: sono presenti scene di gruppo, a volte anche con l'inclusione di animali. Queste immagini sono presenti praticamente in tutta l'arte sacra indiana, principalmente si hanno coppie in atteggiamenti casti o blandamente sensuali, ma intorno al X secolo iniziano a diffondersi su larga scala anche quelle più apertamente erotiche.

Viene naturale chiedersi com'è possibile che queste immagini così spinte si possano conciliare con il messaggio di un edificio sacro come il tempio. La risposta c'è, ma non è univoca. 
Di base la rappresentazione della coppia (mithuna) o del sesso (maithuna) ha una valenza positiva, è di buon auspicio e genera prosperità. Si dice per esempio che i maithuna proteggano il tempio dai fulmini. Il moltiplicarsi di queste raffigurazioni fa sorgere però riflessioni più profonde, come l'ipotesi che ci siano diversi livelli di comprensione da parte dei fedeli. Ci potrebbero essere infatti spiegazioni esoteriche, riservate ai più esperti, e spiegazioni più popolari, dedicate ai meno colti e forse anche a coloro che per motivi di casta non potevano entrare.

Una cosa su cui non ci sono dubbi è che, in qualche modo, si è di fronte al culto della fertilità, già dagli albori infatti c'erano oggetti votivi o rituali che includevano questo tipo di immagini. Nei secoli poi la cultura indiana si evolve, da una parte diventa più sensuale e dall'altra valorizza la sessualità come strumento etico e religioso. E' importante sottolineare che l'induismo non è una religione soltanto ascetica, ma al contrario riserva uno spazio molto importante all'amore umano. Le dottrine canoniche hindu prevedono che ogni uomo debba perseguire tre scopi nella sua vita:
  • Kama, cioè la soddisfazione del piacere fisico, cui è dedicata la lettura del Kamasutra. Si tratta di un libro che illustra anche i comportamenti che conducono alla felicità amorosa, non solo l'erotismo.
  • Artha, cioè il benessere economico.
  • Dharma, cioè la rettitudine.
Una volta che sono stati raggiunti questi tre scopi si deve cercare di raggiungere lo scopo supremo, cioè la salvezza e la liberazione (Moksha).

Siccome i templi vogliono essere un'immagine del mondo, probabilmente le raffigurazioni erotiche sono solo un modo per dare spazio anche al Kama. Oltretutto l'immagine dell'unione d'amore è anche da considerare come una potente metafora del piacere sublime che l'anima individuale potrebbe avere nell'unione con Dio.
La connessione fra il sesso e le massime mete religiose è valorizzata specialmente dal tantrismo, corrente fortemente ritualistica che si afferma sia nel buddhismo sia nell'induismo: prevede dei riti erotici che servono a dilatare e reintegrare la coscienza. Sono pratiche esoteriche e non è semplice riuscire a collegare una precisa scuola tantrica con un preciso tempio, quindi è improbabile che le incisioni di cui stiamo parlando siano relative al tantrismo; situazioni come questa aiutano però a comprendere come la raffigurazione del sesso sia pienamente accettata in ambito religioso.

Nei santuari medievali, inoltre, si era diffusa una forma di prostituzione sacra. C'erano donne che vivevano nel tempio e partecipavano al culto come danzatrici; le immagini erotiche possono quindi aver tratto spunto anche da questa usanza.

Qui sotto alcuni esempi di scene erotiche scolpite sugli esterni del tempio di Kandariya Mahadeo, o "Tempio dell'amore" (arte Chandella, inizio dell’XI secolo d.C., presso Khajuraho, Madhya Pradesh).






R. M.

giovedì 12 gennaio 2012

Le grotte di Ajanta: il chaityagriha n.19 e il vihara n.1

Le grotte di Ajanta non sono vere e proprie grotte, bensì monumenti buddhisti scavati interamente nella roccia. La scelta di questo tipo di architettura non è ovvia, ma probabilmente è dovuta ad una serie di fattori quali: il fatto che nella concezione indiana gli dèi abitano sulle montagne, che le grotte naturali sono da sempre il ritiro prediletto per gli asceti, che nei mesi di monsone i monaci buddhisti itineranti si dovevano rifugiare temporaneamente nelle grotte naturali, e non da ultimo che si voleva rendere eterne nel tempo le strutture. 

Questa pratica è comune sia all'arte buddhista, sia a quella hindu, sia a quella jaina, naturalmente ogni centro si differenzia dagli altri per qualche caratteristica particolare, ma la struttura di base è sempre la stessa.

  • La sala di culto corrisponde a un tempio ed è chiamata chaityagriha, la parola chaitya equivale a stupa ed è infatti uno di questi “tumuli” a costituire l'oggetto di devozione infondo alla sala (in un altro momento approfondiremo anche questo aspetto). Il classico chaityagriha ha pianta absidale ed è diviso in tre navate, quella centrale è più larga e conduce all'abside in cui è collocato lo stupa e attorno al quale è possibile fare il percorso rituale di adorazione. Naturalmente in questo caso parliamo di stupa poichè ci stiamo occupando di un complesso monastico buddhista, al variare della religione varia anche l'oggetto di culto. 
  • Le residenze dei monaci (vihara) sono sempre in numero maggiore rispetto alle sale di culto. Sono costituite da un portale che dà accesso ad una sala quadrangolare lungo i cui lati si aprono le piccole celle. Questa sala nella roccia è la riproduzione del cortile che c'è negli edifici costruiti normalmente. Con il tempo le sale si strutturano anche su più piani (fino a 3) e si arricchiscono di colonne e cappelle per il culto, tanto da arrivare a volte a sostituire gli stessi chaityagriha.
I complessi monastici scavati nella roccia sono davvero molto numerosi, ma il più prestigioso per l'architettura rupestre è quello di Ajanta. Viene scoperto per caso nel 1819 durante una battuta di caccia inglese, ed è costituito da una trentina di grotte, numerate a seconda della loro posizione: i chaityagriha sono quattro, mentre il resto sono vihara, e sono presenti anche alcune grotte non terminate che mostrano che gli scavi venivano compiuti partendo dall'alto così da non dover usare impalcature.
Il gruppo centrale del complesso è il più antico e risale alla prima fase del culto buddhista (Hinayana - "piccolo veicolo"), la sua grande fioritura però avviene verso la fine del V secolo (Mahayana - "grande veicolo"). È in questa seconda fase che si collocano il chaityagriha n.19 e il vihara n.1.

Il chaityagriha n.19 è uno dei più spettacolari poichè ha moltissime colonne finemente decorate e ha la particolarità di avere una grande figura del Buddha situata sulla facciata dello stupa. Qui sotto potete ammirarne la bellezza.


La particolarità del vihara n.1 invece sta nel fatto che al suo interno è presente uno dei dipinti murali più celebrati nel buddhismo, quello del Bodhisattva Padmapani. I Bodhisattva sono delle figure mitologiche che rimandano il momento della propria illuminazione per soccorrere gli uomini trascinati nel turbinio delle esistenze. Quello di cui parliamo è quindi uno di questi esseri perfettissimi ed ha la particolarità di avere un loto in mano (la traduzione di Padmapani è proprio "con un loto nella mano"). 


Come detto in precedenza, nel corso della seconda fase anche i vihara iniziano ad essere dedicati al culto ed infatti questo dipinto si trova all'interno di un sacrario, insieme ad un altro dipinto di un altro Bodhisattva. Come in tutte le altre raffigurazioni di questo tipo il soggetto deve racchiudere al suo interno sia la dolcezza e la compassione, sia la forza e il potere di guidare altri esseri a lui inferiori. Il 
volto è lievemente chino e assorto (a indicare l'introspezione), la bocca ha una piega che però non sorride, le ampie spalle ricordano un essere poderoso che domina l'esistente, il cesello del diadema mette in risalto la raffinata arte orafa, la mano che regge il loto è quasi un'opera d'arte a sé stante. Alcuni tocchi di bianco conferiscono volume e luminosità al dipinto: la luce infatti non cade in modo direzionale sulle scene, ma si irradia tutto attorno.

La cosa più misteriosa riguardo questi dipinti è la loro fruizione, perchè le grotte dove sono situati sono molto buie e le lampade a olio non avrebbero mai potuto illuminarli nella loro interezza e bellezza. Anche per la loro realizzazione molto probabilmente ci furono parecchi problemi in questo senso e sicuramente gli artisti hanno dovuto incanalare la luce dall'esterno, forse con dei teli bianchi.

Un'ultima precisazione che va fatta è quella riguardo la tecnica di realizzazione, sono infatti definiti affreschi anche se in realtà sono stati eseguiti su una base secca. La pietra veniva pareggiata con fango e fibre vegetali, veniva poi steso sottile strato di intonaco; solo allora si tracciavano i contorni con il cinabro, poi il tutto veniva colorato con dei pennelli di peli, alla fine venivano ripassati di nuovo contorni, e il dipinto finito veniva lucidato con una pietra liscia.
Questi di cui abbiamo parlato sono i pochissimi esempi di pittura murale rimasti, e sono molto preziosi oltre che per la loro simbologia, anche per la loro unicità. 


R.M.